I cambiamenti sociali ed economici

Dicevamo che l'adolescenza come la conosciamo oggi ha una storia relativamente breve, possiamo orientativamente segnarne la "data di nascita" intorno alla fine dell'ottocento e identificare anche i suoi genitori: il mutamento delle condizioni lavorative, con l'avvento dell'industrializzazione, il conseguente svuotamento delle campagne e l'enorme popolamento delle grandi metropoli (soprattutto del nord) e l'avvio della cosiddetta "scolarizzazione di massa". Proviamo a ricomporre questo percorso passandone velocemente in rassegna le tappe fondamentali.

 

Senza andare troppo indietro nel tempo iniziamo dal medioevo. La narrazione che fanno gli storici di quel periodo è per noi sorprendente: si diventava adulti anche prima di esserlo biologicamente. Le ragazze prendevano marito prestissimo, attorno ai 14 anni  ed avevano la prima mestruazione molto più tardi di quanto non accada oggi. Robert Delort, uno dei più grandi storici dell'età medioevale, racconta come le ragazze avessero il menarca intorno ai 17 anni e di lì iniziassero a figliare in maniera ripetuta poiché era altissima la mortalità infantile. Molte ragazze morivano di parto giovanissime. Si entrava giovanissimi nella vita professionale, tra i 5 ed i 7 anni, e fin già dai 13-15 anni si accedeva alla maggiore età con l'acquisizione di tutte le responsabilità di un adulto: ci si sposava, si diventava padri, operai, maestri ma -e questo è il vero dramma- difficilmente si riusciva a vedere i propri nipoti giacché la durata della vita era molto corta, a trent'anni un uomo era già vecchio e vicino alla morte.

 

Seicento                                             

   

Osservate questa immagine, si tratta di un magnifico quadro di Velazquez conservato nel Museo del Prado a Madrid https://museoprado.mcu.es il cui titolo è  «Las menina», dal portoghese: «damigelle d’onore». In realtà  questo  è un ritratto collettivo della famiglia del re di Spagna, Filippo IV, e di alcune persone a loro più vicine, tra cui lo stesso Velazquez. I personaggi, in base alla identificazione accertata, sono i seguenti: partendo da sinistra, in primo piano abbiamo innanzitutto Velazquez, quindi l’infanta Margarita, figlia dei sovrani di Spagna, circondata da due damigelle d’onore: Maria Augustina a sinistra e Isabel de Velasco sulla destra. Seguono poi due nani, Mari-Barbola e Nicolasito Pertusato. Ora, quello che ha noi interessa è come sono vestite e curate queste bambine: sono specie di adulti! Siamo alla metà del seicento ed i bambini sono considerati come piccoli adulti. Dell' adolescenza come fase della vita non c'è tracccia.

 

Ottocento e primi del novecento

Bene, i periodi della vita definiti nel medioevo durano tanto: per 1300 anni! Dal V secolo fino all'ottocento l'adolescenza come è oggi non esisteva . Il passaggio dall'infanzia all'età adulta avveniva in maniera assai repentina e silente. Anzi, il modo di vivere l'infanzia era anch'esso diverso. I bambini venivano integrati molto presto nel mondo degli adulti, con i quali condividevano il lavoro, soprattutto negli ambienti rurali tutta la famiglia era occupata nel lavoro dei campi e nell'allevamento del bestiame, condividevano la vita sociale, gli atteggiamenti e addirittura il modo di vestirsi e talvota anche le decisioni. I processi formativi ed educativi erano brevi, concreti (legati soprattutto alla acquisizione di competenze lavorative minime). Verso la fine della prima metà dell'ottocento, suppergiù dal 1830 al 50, nell'occidente avviene qualcosa di importante che cambierà definitivamente la vita di tutte le persone e che condurrà a profondi mutamenti nelle età della vita, nella psicologia individuale e nel modo di crescere e stare insieme: la rivoluzione industriale. Una profondissima trasformazione delle strutture e delle funzioni produttive e sociali determinata dall'affermazione di nuove tecnologie e, soprattutto, di nuovi modi di vedere la vita ed il mondo. Ciò che inizia dapprima a mutare è il lavoro, con l'avvio e l'apertura di industrie e fabbriche e, in queste strutture, da subito i lavoratori furono i bambini e non i loro genitori, gli adulti rimanevano a lavorare ancora la terra e badare alle bestie.

 

    Il ricorso alla manodopera infantile, che prende le caratteristiche di un vero e proprio sfruttamento, con orari spaventosi (13-14 ore al giorno), segue ragioni di bieco interesse: i costi sono estremamente ridotti e aumentano sensibilmente i margini di profitto. Ciò è evidente, un bambino non doveva mantenere da solo la propria famiglia ed aveva in realtà bisogno di molto poco. A differenza di una donna non correreva il rischio di rimanere incinta e, così, lasciare il posto, cosa che avrebbe richiesto l'addestramento di un nuovo operaio con rallentamenti sul lavoro. I bambini erano più docili degli adulti, non facevanmo storie e non accampavano diritti. Ad un bambino veniva fatto un contratto di apprendistato (e non sempre) e quando arrivava ad un'età "adulta" veniva messo alla porta e ..."tanti saluti".

Questa condizione non durò poco. Anche se nel 1880 in Italia viene proposto un disegno di legge per la riduzione del lavoro dei bambini nelle industrie e dieci anni prima viene introdotto l'obbligo scolastico nel primo triennio delle elmentari (Legge Coppino), lo svuotamento delle fabbriche da parte dei bambini fu molto lento e si compì solo verso il secondo decennio del novecento, grazie alla legge Orlando del 1904 che allungava  l'obbligo scolatsico fino ai 12 anni.  Nel 1923 la riforma scolastica di Giovanni Gentile allungò ancora di più il periodo della formazione scolastica obbligatoria: fino ai 14 anni. I bambini uscivano dalle fabbriche e dal mondo del lavoro e passavano obbligatoriamente ad un lungo periodo di formazione. Venivano accomunati tutti in una stessa condizione, quella di soggetti in crescita ed in formazione. Non è però ancora una vera scolarizzazione di massa, questa avverrà solo dopo la seconda guerra mondiale. Purtuttavia è il primo grande cambiamento che porta alla nascita della quarta stagione della vita, dopo l'infanzia, l'età adulta e quella anziana.

 

"Giovinezza giovinezza": il fascismo e l'esaltazione della seconda età della vita

La prima guerra mondiale aveva cancellato in poco più di tre anni una intera generazione, i ragazzi del '98 e del '99, ma aveva "riconsegnato" agli italiani l'immagine del giovane eroe che già il risorgimento aveva esaltato. Il fascismo si trova con mutate condizioni demografiche e politiche: nel 1921 i ragazzi (maschi e femmine) compresi in una età che va dai 10 ai 19 anni rappresentano più del 21% dell'intera popolazione italiana (oggi arrivano a mala pena al 9%). La massima  parte di questi ragazzi (il 92%) finiscono la loro formazione con la scuola elementare, e c'è un gran numero di bambini e giovani (il 37% del totale) che a scuola non ci va proprio. Ciò significa che una massa enorme di soggetti corrono il rischio di uscire da ogni forma di controllo sociale, cosa che un regime come quello fascista non può assolutamente permettersi: il regime ha bisogno di controllare in maniera severa e così accaparrarsi il consenso che gli è necessario per sopravvivere! I giovani per il fascismo non sono solo una categoria anagrafica, ma diventano necessariamente un simbolo di molteplici valori: etici, civili, estetici. Si afferma, per esempio, che "Il vile non può essere giovane",  secondo una significativa intuizione del Duce, "esso è vecchio e decadente. Il giovane implica un'anima d'eroe". E' imperativo controllare e socializzare per costruire il conseso. E lo si fa attraverso organizzazioni che possano incontrare il favore dei ragazzi e siano un esperienza totale: i bambini e i ragazzi sono divisi in Balilla (8-11 anni), Balilla Moschettieri (11-13 anni), Avanguardisti (13-15 anni), Avanguardisti Moschettieri (15-17 anni), Giovani Fascisti (17-21 anni);- le bambine e le ragazze sono Piccole Italiane (8-14 anni), Giovani Italiane (14 17), Giovani fasciste (17 21);- dopo i 21 anni si può passare ai Fasci di combattimento, anche quelli divisi in maschili e femminili. Mai in Italia gli adolescenti ed i giovani avevano goduto di tanta attenzione. 

 

Il dopoguerra

Al censimento generale  del 1951 i ragazzi in età compresa tra i 10 ed i 19 anni sono il 17% della popolazione italiana. In realtà non è un vero e proprio primato, giacché il vero e proprio picco della popolazione giovanile c'è stato negli anni '20. Questo incremento nella fetta giovanile durerà per quasi un decennio. C'è un fatto nuovo rispetto al passato, i giovani iniziano ad essere studiati da una disciplina prima quasi sconosciuta in Italia: la sociologia. Sembrerà strano, ma fino agli anni '50 erano la psicologia e le discipline biomediche ad interessarsi prevalentemente di questo periodo della vita. Sia la psicologia che la biologia sono utilissime ma non rendono pienamente conto dei diversi aspetti che caratterizzano questa età. Negli anni '50, secondo le analisi dei sociologi, i  giovani italiani sono "piatti", conformisti, perlopiù interessati ai problemi concreti della loro esistenza: la ricerca di una sistemazione, un posto di lavoro che gli permetta di vivere serenamente e dignitosamente, potersi sposare e mettere su famiglia. Era la cosiddetta generazione delle "3 m": avere un mestiere, accasarsi ed avere una moglie/marito, possedere dei beni materiali, una macchina utilitaria che simbolizzava la mentalità del consumo.

Questo stato di cose dura almeno un decennio, fino ai primi anni '60. Poi qualcosa cambia radicalmente ed in modo quasi imprevisto: gli adolescenti diventano "giovani". Se praticamente dal medio evo l'adolescenza era un periodo di attesa piuttosto breve per passare ad uno status, ad una condizione adulta, dagli anni '60 nasce la condizione dei giovani. Non si tratta di una classe sociale, per essere una classe occorre che si sia precisamente inseriti nel sistema produttivo della società ed i giovani non lo sono, sono più precisamente un gruppo di persone appartenenti ad una fetta di età fluttuante ma che tende sempre più a dilatarsi, anticipando il periodo di ingresso e dilazionando fortemente il momento di uscita. Un periodo che diventa sempre più lungo. Dagli anni '60 tutto l'occidente è investito da questi grandi cambiamenti nel mondo dei giovani. In Gran Bretagna prima  e poi negli USA si avvertono i segnali di un profondo mutamento. I giovani iniziano a richiamare l'attenzione del mondo adulto per una serie di atteggiamenti poco convenzionali. Non sono più scettici ma idealisti e ribelli. Costruiscono uno stile di vita "giovane" che abbraccia la totalità delle esperienze: l'abbigliamento, prima del tutto adultizzato ed ora diventa specifico (strano, bizzarro, alternativo), la parlata, gli atteggiamenti, l'arte e soprattutto la musica, le relazioni, la visione dei rapporti, la visione del mondo e del futuro, la visione della società intera.

 

Dagli anni '60 ...

I giovani, anche se non tutti ovviamente, sembrano essere alternativi al mondo degli adulti che appaiono lontani sotto tutti i punti di vista. Capelloni, beat, figli dei fiori, alternativi, provocatori, rocketari, squatters, sballoni, freak, i gruppi di liberazione femminile e degli omosessuali. C'è di tutto e di più per darsi una identità e distinguersi dal mondo dei grandi e fra gruppi di giovani stessi. Nella prima parte degli anni '60 richiamano l'attenzione soprattutto gli aspetti esteriori e in qualche modo folkloristici dei giovani, soprattutto i gruppi beat e hippie che proponevano in sostanza una visione diversa del mondo. Ma già dal 1964  i giovani assumono posizioni politiche che si concentrano sull'uguaglianza razziale, sulle opportunità per tutti di accesso allo studio universitario e, soprattutto, sulla sporca guerra del Viet Nam. In Italia, dalla metà degli anni '60 è un susseguirsi di azioni di lotta studentesche come, ad esempio, l'occupazione della Facoltà di Sociologia di Trento. Ma è nel biennio 67-68 che c'è una vera e propria svolta, dalla protesta "eterea" si passa alla contestazione del "sistema adulto" globalmente considerato. 

il video integrale è alla pagina: https://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-f6f35666-53cb-4017-ba7c-180138462abe.html#p=

Sostanzialmente negli anni '60 si è costruita la fase della vita adolescenziale/giovanile così come la conosciamo oggi: lo stile giovane, nato paradossalmente come reazione al sistema per poi essere utilizzato dalla società consumistica che ne ha tratto e continua a trarne vantaggi enormi. Dagli anni '60 quindi si parla di "condizione giovanile". Ma da dove viene questa definizione e cosa significa? Dobbiamo fare un po' di teoria.

Nel settembre del 1970 si svolse a Varna, in Bulgaria, il settimo  Congresso mondiale di sociologia nel corso del quale gli scienziati posero al centro delle loro analisi anche quanto stava accadendo fra i giovani di tutto il mondo. Ovviamente, le spiegazioni furono le più varie, tra i convegnisti trovò però un consenso quasi unanime la spiegazione della "marginalità"; ovvero, "uno status sociale che fa vivere una collettività -appunto i giovani- sotto circostanze diverse da quelle della società cui potrebbe appartenere, con meno diritti, responsabilità, possibilità di affermazione e partecipazione alla vita sociale e nelle decisioni". I giovani vivevano appieno una discrepanza tra status e ruoli, chde era un prodotto di condizioni sociali ed economiche. In Italia si assisteva al tramonto del boom economico con le prime lotte operaie (gli autunni caldi che dal '69 si succedettero per diversi anni), ideologiche e politiche che si manifestavano nei diversi tentativi di spostare  l'asse sempre più a destra. Si inizia a parlare per i giovani di nuova e forte scolarizzazione che appare però come una forma più o meno elegante, più o meno riuscita, di ampliare la cosiddetta area di parcheggio. Sostanzialmente i giovani vivono una realtà di forte esclusione nella quale hanno molti obblighi e pochi diritti, e nel contempo hanno costruito degli stili tipici che li caratterizzano e li differenziano fortemente dal mondo adulto. 

Dai primi anni '70 i giovani smettono di essere "condizione". Essere "condizione" presupponeva una specie di "identità collettiva", una certa capacità di produrre una "cultura" autonoma, presuponeva una forte propensione alla mobilitazione e alla partecipazione di massa. I giovani contestatori invece si dividono in una moltitudine di gruppetti fra di loro alle volte in opposizione. All'inizio degli anni '80 la condizione giovanile si frammenta in una pluralità di vissuti soggettivi altamente privatizzati, si assiste all'inizio dell'era del "soggettivismo", dell'attenzione sempre più marcata a se stessi, al proprio mondo ed al proprio vissuto, si assiste ad un vero e proprio "rifluire" nelle esperienze personali, esistenziali e psicologiche. Ed è proprio alla metà di questi anni che si inizia a parlare di disagio: una generazione  di giovani in condizione di disagio, una condizione di sofferenza sociale e personale ai limiti del patologico connotata da insoddisfazioni e dalla crescente incapacità, o addirittura di impossibilità da parte dei giovani di trovare degli appigli stabili per la costruzione delle proprie identità personali e sociali. Il disagio consisteva, ed in qualche modo consiste tutt'ora, in una specie di dissonanza, quasi irrisolvibile, tra ciò che i giovani percepiscono come possibile e ciò che invece sperimentano come radicalmente negato dalla società. I giovani dagli anni '90 non sono più ribelli, non sono più in contrapposizione netta con il mondo degli adulti, appaiono docili, ambigui, confusi, tanto centrati su se stessi da sembrare indifferenti rispetto a ciò che gli gira intorno. Oggi